mercoledì 2 dicembre 2009

Dalla Colombia alla Repubblica Bolivariana del Venezuela.

.Santa Ana de Coro.

Arriviamo da Santa Marta(Colombia) a Maracaibo alle dieci del mattino dopo 12 ore di pulmino anziché 7 a causa del bus che prima si ferma con la batteria scarica e che poi buca una ruota.
Alla frontiera di Maicao non abbiamo nessun problema nonostante in precedenza ci avessero detto il contrario a causa delle tensioni Colombia-Venezuela.
La cittá é petroliera e piuttosto brutta; l'unico episodio emozionante é una rapina che si svolge a 15 metri da noi con due tizi senza casco in moto che armati di pistola rapinano con nochalance una signora in mezzo alla folla presente nella zona universitaria.
L'ostello sembra una caserma ed ha la tariffa per 12 ore soltanto ma ci avvisa di questo solo dopo 24 ore.
Truffati paghiamo, prendiamo gli zaini e andiamo al Terminal dei bus sperando di trovare posti per l'ultima corsa per Mérida, quella delle 22.
Da Maracaibo a Mérida viaggiamo in un congelatore, temperatura interna 15 gradi.
Arriviamo dopo 12 ore di viaggio.
Mérida é una cittá universitaria circondata dalle Ande e si trova a 1500 metri d'altezza. Vanta il teleferico piú alto e lungo del mondo (arriva a Picco Bolivar, 4765 metri s.l.m) che peró é chiuso per ristrutturazione.
Qui ci fermiamo tre giorni.
Scopriamo che c'é il quinto anniversario dell'incontro internazionale dei trovatori e dei sognatori necessari; tre giorni di incontri culturali e musicali con concerti in un piccolo bar, in un auditorium universitario, in un centro sociale culturale ed in un parco.
L'ultimo giorno é il piú interessante; si apre con una marcia di suonatori armati di sombrero e di chitarra che partono da piazza Charlie Chaplin e arrivano al vicino parco dell'Isla dove poi terranno un concerto tutto il pomeriggio fino a sera.
Il piccolo corteo é aperto da una famiglia colombiana che gira in bicilcletta il Sud America suonando da otto anni; reggono tra le mani una bandiera Aymara con su scritto 'Fuerza de la Paz'.
Cantano Bella Ciao.
Al concerto suonano cantautori e bande venezuelane(tra questi gli Iven di Merida, in attivitá da 30 anni), cubane (alla loro presentazioni ovazione per Cuba e per José Martí), colombiane ,peruviane e argentine.
Alla conclusione si uniranno tutti per un improvvisato ballo concluso con un inchino.
Per sei ore ascoltiamo musica di lotta e dignitá; musica andina, folk, salsa e poesie.
Sulle scalinate di fronte al piccolo palco ci saranno tra le 200 e le 300 persone che appludono e ridono, stanno in silenzio e si emozionano, che cantano e ballano.
Si sente e si respira la storia. Si sente entusiamo e la certezza che qualcosa di nuovo stia nascendo.
Si parla di uomo nuovo, di nuovo socialismo, di fratellanza e solidarietá, di fine di un Impero.
Di lotte indigene, di Madre Terra, di rivoluzione, di Bolivar, di istruzione, di antimperialismo, di libertá e unitá, di libertá per l'Honduras e di integrazione latinoamericana.
Qualcosa si sta cosruendo.
Si parla molto di popolo, di dignitá, di vita.
Si chiama la gente a stare all'allerta perché l'impero non dorme mai e le sette basi militari degli Stati Uniti guidati dal premio Nobel per la pace Obama installate di recente in Colombia ne sono la prova. Il golpe in Honduras idem..
La Colombia di Uribe, unica in Sudamerica insieme al Perú, ad aver riconosciuto le elezioni golpiste svoltasi Domenica in Honduras.
Tre giorni a Merida valgono la pena solo per questo incontro che ha emozionato e a tratti commosso.
Il Venezuela con Chavez ha visto nascere nuove Universitá pubbliche e gratuite; gli iscritti universitari sono passati da 450.000 pre-Chavez a piú di tre millioni con il comandante, forse l'unico che é riuscito a resistere ad un golpe di stato orchestrato dagli Stati Uniti (11 Aprile 2002).
Il barile del petrolio sul mercato oggi vale circa 100 dollari e con un euro(8 bolivar al cambio nel mercato nero) qui la gente compra piú di cento litri di benzina.
Numerose sono le macchine anni `70 come le Dodge, le 197 Checker marathon, Ford Mustang etc.
Si stima che le risorse venezuelane siano cosí numerose che se ne potrá usufruire per ancora 300 anni. Si stima anche che il prezzo del barile da qui a dieci anni salga a 500 dollari.
Immaginiamo del perché Chavez sia preoccupato delle sette basi militari americane al confine colombiano.
La sanitá e l'istruzione sono accessibili gratuitamente a tutti.
Recentemente sono aumentate le bollette dell'elettricitá per coloro che consumano piú di 500 kw mensili, circa il 15 per cento della popolazione.
In ogni quartiere miserabile, quelli dove nemmeno la polizia entra, sono state costruite cliniche ospedaliere gestite da medici cubani e venezuelani.
I mezzi statali sono efficienti (vedi la metropolitana cittadina) ed economici; una corsa in metropolitana vale 50 centesimi di Bolivar (un quattordicesimo di euro al mercato nero, piú utilizzato di quello ufficiale).
Si sta pensando di nazionalizzare le banche che sono state scoperte fare frodi, tra quete Banco del Caribe. Banco del Caribe che avuto l'ultimo anno di tempo per recuperare i suoi debiti e per mettersi in regola.
Ma che non ne ha aprofittato.
Il Venezuela sembra moderno e relativamente ricco e si nota il fatto che sia una nazione petrolifera dagli inizi del secolo scorso.
Da Merida siamo partiti il 29 Novembre per venire a Caracas.
Siamo partiti alle 9 e le dodici ore teoriche di viaggio risultano essere 19 perché i sospensori del bus si rompono (fermi piú di 4 ore fino all'alba).
Partiamo alle 21 e arriviamo il lunedí alle 15. Il bus non ha il condizionatore bensí il congelatore; lo stesso usato dai camion che trasportano carne.
Ci si ghiacciano le palle. Calzini usati come guanti e imprecazioni a non finire.
Mentre riparano i sospensori conversiamo con due militari graduati che ci danno la mano quando citiamo Simon Bolivar.
Si stupiscono quando gli raccontiamo il salario dei mercenari che vanno in Afghanistan e in Iraq e sembrano esserne schifati.
Il servizio militare non é obbligatorio ma tutti devono essere iscritti.
Alla nostra domanda rispondono affermativo.. In caso di guerra potremmo indossare le loro stesse uniformi come milizia volontaria straniera.
Sono dei bonaccioni; si parla di indigeni,di armi, del nostro viaggio, di Socialismo e di politica.
Alle 15 arriviamo a Caracas, la cittá é costruita in una vallata e si trova a 800 metri di altezza.
Intorno alla cittá fanno da cornice baracche in legno, in mattoni e di lamiera che si arrampicano sui monti. I cosidetti ranchitos. Tutti rigorosamente con l'antenna satelittare.
Sono una quantitá incredibile di baracche costruite l'una sull'altra che di notte illuminano i monti circostanti fecandoli apparire come enormi presepi.
La regola edilizia è quella del ''il mio tetto è il tuo pavimento''.
Da questi quartieri la gente scese in massa i giorni seguenti all'11 Aprile del 2002per rispondere al colpo di stato e per difendere il governo legittimo di Hugo Chavez.
Quelle dei ranchitos sono zone franche dove forse ci porterá Manuel, amico 62enne venezuelano che ci sta ospitando.
Manuel vive con sua moglie e il figlio Mario a 20 km da Caracas in un quartiere semiricco che ricorda i colli bolognesi o la Maddalena.
La zona é quella di Montaña alta.
Manuel e Yanis ci trattano da re; ci viziano con Provolone, prosciutto, vino bianco veneto, grana e parmigiano, rum Santa Teresa e Averna.
Concordano col processo della rivoluzione bolivariana; ci mostrano libri sul fallito golpe contro Chavez ('Puente Llaguno, Hablan las vìctimas' di Nèstor Francia), seguono con noi le notizie che arrivano dall'Honduras (62 per cento d'astensionismo), ci parlano di cucina italiana e di storia e cultura venezuelana.
Ci fanno mangiare e bere come pasciá e ci lasciano la casa a completa disposizione.
Ci consigliano le prossime tappe e offrono la loro disponibilitá per accompagnarci a Palazzo Miraflores e al Capitolio per cercare di avere qualche contatto con qualche deputato che possa fare da tramite per ottenere una breve e impossibile intervista col terribile Comandante.
Per la seconda volta (dopo essere stati testimoni delle lotte indigene in Perú e Bolivia) ci sentiamo in mezzo al cambiamento, dall'altra parte del muro; sentiamo il dolce odore di una rivoluzione pacifica, alla quale comunque manca ancora parecchia strada.
Dopo una notte passata a riassaporare i sapori di casa ci svegliamo e, preso il metrobus, arriviamo in Piazza Venezuela nel centro di Caracas.
Da lì ci incamminiamo verso Piazza Bolivar, sede del Palazzo Miraflores dove risiede il presidente.
Camminando incrociamo mezzi della polizia, un blindato dotato d'idrante, motociclette, jeep della Guardia nazionale bolivariana e membri della polizia militare.
Tutti sono dotati di divisa e di protezione ultramoderna che li fa sembrare tanti piccoli (mica tanto) robocop.
C'é una manifestazione dell'opposizione in favore del governatore di Miranda, regione di cui fa parte Caracas, Capriles Radonski.
Chavez vuole per il prossimo anno lanciare un referendum di medio mandato; un referendum consultorio tale e cuale a quello cui lui è stato soggetto poco tempo fa.
Tale referendum é previsto dalla Costituzione, democraticamente modificata da Chavez nel 2007.
Il referendum in questione sarebbe revocatorio; tutti i cittadini della regione di Miranda saranno chiamati al voto dopo due anni di governo Radonski.
In caso di voto favorevole Radonski continuerebbe il suo lavoro; in caso contrario si andrebbe a nuove elezioni.
Gli antichavisti hanno manifestato contro la possibilità referendaria l'1 Dicembre.
Dall'altra parte, fuori da Palazzo Miraflores e nei pressi di Plaza Bolivar, simpatizzanti chavisti e del Psuve si sono radunati per rispondere agli oppositori e per criticare fermemente la presenza al Palazzo di Enrique Mendoza, governatore di Miranda dal 1998 al 2004 e successivamente leader della Coordinadora Democratica.
Coordinadora Democratica che aveva l'intenzione di sostituire Chavez al Governo in caso di sconfitta di quest'ultimo al Referendum revocatorio del medesimo anno.
Referendum che Chavez superó senza problemi.
Enrique Mendoza é accusato di aver svolto un ruolo fondamentale nel tentato Golpe di Stato del 2002.
Per questa serie di motivi molti membri del popolo hanno di fatto assediato il Palazzo da mezzogiorno alle quattro del pomeriggio; solo a quest'ora Mendoza è riuscito ad abbandonare Miraflores scortato dalla Guardia Nazionale Bolivariana fin dentro all'adiacente stazione della metro, quella del Capitolio.
La gente urlava ''Chavez no se va'', ''Nunca mas el Golpe'' e accusava Mendoza di fascismo e paramilitarismo.
La giornata s'è chiusa senza incidenti se non con qualche divisa delle forze dell'ordine imbrattata dal lancio di uova e monete.
Divise colpevoli d'aver fatto da barriera con i loro scudi tra i manifestanti e l'ex governatore.
Lasciamo la piazza e continuiamo a camminare in direzione ignota finché non c'imbattiamo in un cartello che pubblicizza un incontro culturale all'Università Bolivariana di los Chaguaramos; l'incontro è aperto al pubblico e tratta la questione indigena all'interno della Rivoluzione socialista bolivariana.
All'istante chiediamo informazioni e raggiungiamo l'Università, aperta da cinque anni.
Il complesso è moderno, dotato di campi sportivi, mense e diverse ali.
Molti graffiti-murales fanno da cornice nel campus; disegni di Simon Bolivar, del cantautore venezuelano Alí Primera, Ernesto Guevara, Malcom X, Allende, Martin Luther King, Sandino e altri eroi dell'America Latina e del mondo intero.
Diversi manifesti mostrano la dinamicità dell'Ateneo; incontri sulle basi militari americane in Colombia, sul Socialismo del XXI secolo, su una nuova idea di educazione, sulla tematica indigena..
Giungiamo alla sala dell'incontro:
Una ventina di persone sono sedute in cerchio su alcune sedie; gente di ogni età e per la maggior parte gente di sangue indio.
Arriviamo alla fase conclusiva e non ci resta che sederci in disparte ed osservare la fine di questo incontro durato due giorni.
Gli animi sono allegri ma fermi; si accusa la burocrazia ed il Governo di star continuando con la secolare colonizzazione delle popolazioni indigene.
Si accusa la demarcazione dei territori indigeni fatta dall'Esecutivo senza consultare le popolazioni, linea contraria a quella dettata dalla Costituzione bolivariana.
Si accusano le concessioni minerarie, gassifere fatte alle compagnie straniere; si accusano le installazioni di nuove basi militari nei territori ancestrali al confine con la Colombia; si accusano vecchi terratenenti corrotti che al confine con la Colombia vanno di combutta nei traffici illegali con i paramilitari colombiani ormai da anni.
Si esige la liberazione di Sabino Romero Izarra, líder della comunità Yukpa de Chaktapa,Sierra de Perija (Stato di Zulia), in carcere dal 21 Ottobre, colpevole di aver difeso e di difendere le terre ancestrali del suo popolo.
Alle ore 19 circa del 13 ottobre 2009 due persone sono morte e cinque sono state ferite, fra loro una bambina.
I morti sono Hevert García, figlio di García (Cacique del Río Yaza e sposo di Guillermina Romero, figlia dello stesso Cacique Sabino Romero Izarra della comunità di Chaktapa) e una giovane Yukpa, di nome Mireya Romero.
Sono risultate ferite la bambina di 11 anni Marylis Romero, figlia del cacique Romero; Edinson Romero nipote del Cacique Romero che ha ricevuto una pallottola nella schiena; Juan de Dios Castro, Manuel Romero e lo stesso Cacique Sabino Romero Izarra che si trova gravemente ferito con due pallottole, una in ciascun braccio.
I presenti in rappresentanza di differenti comunità chiedono la ristrutturazione della Commissione Nazionale di Demarcazione territoriale e una Auditoria esaustiva sul Piano Integrale Yupka, entrambe con la presenza delle comunità indigene.
I presenti all'incontro terminano scrivendo una lettera al Comandante Presidente della Repubblica Hugo Chavez Frìas chidendogli di essere ricevuti entro la fine dell'anno 2009.
I punti principali della lettera in questione per l'ennesima volta riguardano:

1.Concretizzare l’acquisto delle migliorie apportate alle aziende recuperate (richiesta ricorrente delle comunità Yupka e ordine presidenziale dell’agosto 2008) come condizione essenziale per creare una condizione di sicurezza e fiducia che possa consentire la demarcazione.

2.Partecipazione effettiva delle autorità ancestrali e tradizionali del popolo Yupka alla assunzione di decisioni su problemi che lo riguardino più direttamente come popolo, in conformità al diritto yupka ed alla legislazione indigenista vigente. Lo Stato deve includere il protagonismo indigeno in tutto il processo di demarcazione e in particolare nel processo della sua pianificazione.

3.Riformulare i procedimenti di consultazione pubblica. Nel caso Yupka, la consultazione deve avvenire comunità per comunità e rispettando il principio dell’informazione previa, libera e fatta in buona fede. I documenti importanti del processo di demarcazione Yupka devono essere tradotti nella lingua Yupka.

4.Garantire che la demarcazione sia conforme ai criteri di “Terre decontaminate, senza fattorie né miniere” come dalla richiesta espressa e permanente delle comunità Yupka.

5.La destituzione di Sergio Rodriguez, Viceministro della Progettazione e Amministrazione Ambientale del Ministero del Potere Popolare per l’Ambiente perché responsabile di avere gestito questa politica errata.

6.La revisione esaustiva della gestione della Ministra Nicia Maldonado, incaricata della definizione delle politiche verso i popoli indigeni.

Ci fermiamo a parlare con i presenti, tra le quali Beatriz Bermuda che lavora al Ministero dell'Educazione venezuelano e che da anni tratta le tematiche indigene, fino a sera.
Preparatissima e sanguigna si definisce libertaria e anarchista.
Parliamo con studenti indigeni, con attori della rivoluzione in corso, con indigeni della Gran Sabana e dell'occidente venezuelano.
Per quanto sia positivo e necessario per l'America Latina il processo rivoluzionario di cui Hugo Chavez è protagonista, non si può parlare di Bolivarismo e di Rivoluzione latinoamericana fintanto che le stesse comunità indigene non siano protagoniste come nella Bolivia del presidente Evo Morales.
Gli accordi commerciali non possono essere superiori alle tematiche ancestrali dei primi abitanti di questo continente; la sanità, l'educazione e il cibo non possono essere esportati in nome del Socialismo in terre dove la cultura è india, Yupka.
Le medicine moderne non possono sostituire le medicine tradizionali e secolari della Pacha Mama.
Molto probabilmente la maggior parte di queste scelte sono state adottate in buona fede ma certamente queste politiche sono contradditorie ad un Socialismo umanitario che parta dal basso.
Così facendo si contraddice lo spirito umanitario di questa rivoluzione e si cade nel Bolscevismo, molto probabilmente non per colpa di Chavez ma per colpa di alcuni terratenenti e di molti burocrati che lo circondano.
Ma Chavez deve rispondere e deve dare una svolta a questo gigante neo del Socialismo del XXI secolo.
Intanto si registra che la Colombia spende nell'ultimo trimeste il sei per cento del prodotto interno lordo in spese militari; Obama, il Nobel per la pace, invia 52.000 marines addizionali in Afghanistan; a Zelaya è negato il ritorno legittimo alla presidenza.
E viene da pensare che tutti questi tasselli non siano parte di un puzzle per una nuova strategia nordamericana in Latino America; una strategia che punti al Golpe silenzioso (come quello in Honduras, permesso dagli Usa e dall'Ue) e che si prepari all'invasione del continente (il Venezuela è circondato da basi militari americane).
Notizia positiva è la vittoria di Josè 'Pepe' Mujica..
Mujica, ex guerrigliero Tupamaro, è stato per 13 anni prigioniero della dittatura; per nove anni è stato isolato e torturato continuamente.
È il nuovo presidente della Repubblica in Uruguay; ha vinto con il 51,9% dei voti, superando il 50,4% con il quale Tabaré Vázquez era stato eletto cinque anni fa.
Il suo rivale, Luís Alberto'Cuqui' Lacalle, del Partito Nazionale, si è fermato al 42,9% dei voti.
L'affluenza alle urne è stata superiore al 90% e non inferiore al 40% come nelle ultime elezioni farsa fasciste svoltasi in Honduras sotto l'ala protettrice di Obama e soci, l'ultimo della lista Silvio Berlusconi.
Ci apprestiamo a lasciare temporaneamente Caracas per dirigerci a Coro e Puntofijo, terra natale del poeta-cantante Alí Primera (morto in uno strano incidente stradale il 16 Febbraio del 1985) e città coloniale a sette ore dalla capitale.
Prima faremo un'ultima tappa al mercato del Cimitero, il più grande ed economico della città, nei pressi di uno dei tanti barri periferici e popolari che circondano il centro.
Continuiamo a camminare sempre sentendoci dall'altra parte del muro, nel mezzo della storia.
Lontani dall'impero.

sabato 7 novembre 2009

Cecilia, la ribelle.



.Santa Marta.

Cecilia ha quarant'anni ed è nata in un paese a poche ore da Nabusimake “donde nace el sol” in arhuaco, capitale della Sierra Nevada nei pressi di Valledupar a otto ore dalla città di Santa Marta in Colombia.
La Sierra è la formazione montagnosa costiera più alta del mondo e la sua vetta maggiore è di 5775 metri.
Dalle sue cime si possono vedere i Caraibi.
Cecilia è un' india che ora vive al parco Tayrona, riserva colombiana di incantevole bellezza caratterizzata dallo spettacolo che offre l'incontro della selva, che arriva ad altezze di 900 metri, con le spiagge caraibiche.
Il Tayrona è parco nazionale di proprietà dello Stato dal 1969.
Precedentemente tutta questa area, consistente in 15000 ettari dei quali 3000 marini, era di proprietà di differenti famiglie.
Il parco era e rimane un luogo sacro per gli indigeni Arhuacos, Kankuamos, Kogi e Wiwa e tuttora, al solstizio d'inverno e a quello estivo, i Mamos, gli sciamani delle comunità, si recano a Pueblito per cerimoniare la Madre Terra, la Pachamama, affinchè sia mantenuto l'equilibrio cosmico ancestrale.
Pueblito oggi è una meta turistica che conta d'alcune terrazze in rovina che in passato fungevano da centri agricoli.
Per arrivarci bisogna inerpicarsi per un sentiero di pietroni ben ripido e lungo due chilometri e mezzo che inizia nei pressi della spiaggia di Capo San Juan.
Da Pueblito in tre giorni di camminata si può arrivare nel cuore della Sierra dove risiedono le comunità. Gli Indios scapparono per questa rotta all'arrivo degli spagnoli e lungo questo cammino costruirono la Città perduta.
Oggi a Pueblito vive solo una famiglia india che riceve i turisti e che bada al luogo.
Qui prima dell'arrivo dei conquistadores vivevano duemila persone.
Allora furono gli spagnoli a far da predoni; da quando il Parco è diventato riserva nazionale, il governo colombiano ha vietato ai nativi di viverci 'spostando' chi vi rimase sulla Sierra.
Qui è nata Cecilia e qui ha vissuto fino ad otto anni fa.
Da allora vive vendendo artigianato precolombiano al Tayrona.
Qui conobbe molti turisti tra i quali antropologi e studiosi che le hanno chiesto di far loro da guida per la Sierra.
In quegli anni il monte era territorio controllato tra gli altri da una formazione guerrigliera alternativa alle Farc Ep.
Questa organizzazione era belligerante nei confronti delle comunità indigene; minacce ed estorsioni erano all'ordine del giorno.
Quando Cecilia accompagnò un'amica svizzera, Micaela, sulla sierra fu inevitabile incrociare uno delle numerose brigate delle Farc che controllavano la zona.
Il comandante accompagnato da psicologi interrogò Cecilia sul perchè fosse venuta accompagnata da una straniera.
Spiegando che il fine era semplicemente culturale passarono senza problemi e continuarono lungo il cammino.
Cecilia conobbe il comandante del frente 59 delle Farc, Higuen Martínez Arias, El Indio, guerrigliero nelle cui vene scorreva sangue indigeno, noto per la sua astuzia militare e per la sua disciplina.
Fu contenta di conoscerlo perchè con le Farc che controllavano l'area finalmente potette tornare alla sua finca senza rischiare di essere vittima di saccheggi e minacce.
Cecilia non era delle Farc ma semplicemente non negava loro aiuto quando queste le domandavano cibo o piccoli favori.
In quei mesi divenne amica del Comandante.
Guerriglia e indigeni erano vicini e vivevano nello stesso territorio.
Nel 2007 el Indio fu tradito dalla guardia del corpo più fidata; gli spararono in fronte mentra stava dormendo e, come prova della sua morte da consegnare all'esercito in cambio della ricompensa, gli tagliarono la mano destra.
Nello stesso periodo i militari sferrarono un'offensiva sulla Sierra.
Cecilia passa da una narrazione all'altra e parla delle Auc, le autodefensas:
..Violentavano, sventravano e svisceravano le madri indigene di fronte agli occhi di figli e mariti che se piangevano venivano ammazzati. Costringevano i familiari a mangiare il cuore cucinato alla piastra dei loro cari.
''Bastardi indigeni non avete fame? mangiate! Abbiamo un sacco di carne per voi''..
Cecilia durante il suo racconto a tratti ride e a tratti piange.
Siamo seduti ad un tavolo di un campeggio di una spiaggia di Arrecife.
Quando ammazzarono l'Indio tra tutto ciò che teneva con sè trovarono un'agenda con distinti numeri di telefono.
Tra questi c'era il numero di Cecilia, lo stesso che tiene tuttora.
Andarono a prenderla al suo piccolo negozio e le dissero di accompagnarli in commissariato per un controllo.
Vi andò incosciente che la stessero arrestando.
Alla stampa i militari dissero che la catturarono tra i monti durante l'operazione Sierra Nevada. Falso.
L'accusarono di ribellione e la imprigionarono per cinque mesi.
Mentre era in carcere non sapeva quanto lunga sarebbe stata la sua prigionia.
Il marito l'abbandonò nel momento in cui lei aveva più necessità.
Sua madre morì mentre lei era in cella, fatto che le portò la solidarietà di tutte le carcerate.
L'accusarono di reclutare stranieri nelle Farc.
In carcere gli indigeni la nominarono lider.
Ha visto assassini, paramilitari, narcos e anche guerriglieri uscire di prigione grazie a bustarelle di qualche millione di pesos.
L'indio, l'unico che avrebbe potuto aiutarla, era morto. Aveva sulla testa una taglia di 800 millioni di pesos.
Ci descrive il carcere nei minimi particolari.
Racconta la storia delle due paramilitari lesbiche che si sono innamorate in cella.
Racconta di com'era vivere nel carcere misto di Valledupar.
Racconta del secondino che si innamorò di lei.
Di come tutti in carcere siano innocenti; di come chi ci resti sia sempre di una classe bassa e marginale.
Di come solo e sempre i poveri paghino.
Ci racconta di una delle brutalità e della perversioni peggiori che l'uomo ha crato; il carcere. Il non poter vedere il cielo.
Racconta anche di quando aiutò un guerrigliero ad abbandonare le Forze armate rivoluzionare colombiane e la Sierra recuperando una macchina e aiutandolo con essa a superare un posto di blocco militare insieme ad altri familiari e amici indigeni incoscienti di tutto.
E ride. Ride Cecilia.
Era un comandante che abbandonò la guerra per amore di un'indigena, da cui ebbe un figlio, che finirà col tradirlo e col farlo ammazzare per diventare poi la donna di un paramilitare.
Storie di sotterfugi e tradimenti.
Ci dice che chiunque abbia un'arma è malato.
Di quanto il governo sia corrotto e di quanto il tradimento regni in Colombia, ad ogni lato.
Narra di come da giovane si oppose all'autorità indigena che era colpevole di discriminare i nativi evangelici da quelli tradizionali.
Leader dei tradizionali era suo fratello maggiore Vicente.
Anche allora fu imprigionata in un carcere della comunità indigena per ribellione.
Per tutto questo ancora adesso la chiamano Cecilia la revolucionaria.
Non è più cristiana ma crede solo nella Madre Terra.
Ora è agli arresti domiciliari che sta evadendo.
C'è un nuovo processo in ballo e potrebbe tornare in cella.
Tornerà sulla Sierra solo quando i Mamos, gli sciamani che puntualmente consulta, le diranno che non rischierà nulla e che sarà sicuro.
Gli stessi sciamani che le dissero di avvisare l'Indio, il comandante, che presto avrebbe subito un tradimento.
L'Indio non l'ascoltò e disse che se fosse morto sarebbe morto lì sui monti da comandante.
Intanto Cecilia sta là a vendere artigianato, borse precolombiane e bracciali, a lato della spiaggia con la selva che le fa da aurea protettiva.
Non ha più un marito, i due figli sono entrambi lontani e uno di essi è diventato un ladrone e s'è affiliato ad una banda di strada mentre lei era in cella.
Ha tanta indignazione e tanta sete di giustizia. Lo si legge nei suoi occhi.
E sta scrivendo un libro grazie alle pagine del diario che riempì durante le disperate e interminabili giornate di prigionia.
Sulla Sierra Nevada non ci sono più le Farc se non laboratori di cocaina e paramilitari.
Quelli che Alvaro Uribe dice di aver smantellato.

giovedì 17 settembre 2009

Dalle Ande alla costa per tornare alle Ande.



.Montañita.

Abbiamo abbandonato il Perù da quasi tre settimane.
Riassumere più di tre mesi trascorsi tra Perù e Bolivia non è semplice soprattutto quando si tratta di decrivere incontri, emozioni, sguardi, culture, persone e impressioni.
Il Perù e un mondo nel mondo. Contiene tutto ciò che la natura può offrire: vette
ghiacciate e vulcani, fiumi arterie del pianeta quale il Rio Ucuyali e il Rio delle Amazzoni e deserti come quelli lungo la costa; spiagge e isole come quelle di Paracas, la Selva e il suo ecosistema.
In Perù si possono incontrare puma e anaconde come leoni marini e foche.
Si possono percorrere vie come quelle di Miraflores a Lima(Casino, fast-food e hotel)o altre come quelle innondate di Belem a Iquitos.
Si possono incontrare i figli del moderno colonialismo occidentale come i giovani alla moda di Lima tanto quanto si può conoscere gente che ancora vive in maniera ancestrale mantenendo viva la cultura dei popoli precolombiani da cui discendono.
In Perù pulsano le radici del mondo. Culture millenarie sopravvivono alla globalizzazione che vuole rendere il Latinoamerica sempre più 'gringa'.
In questo ombelico del mondo esistono luoghi dove il cancro che affligge il pianeta non ha ancora attecchito.
Durante questi tre mesi centinaia di persone sono uscite dalle loro comunita, dal cuore della selva o dalle Ande, per bloccare con i loro corpi e le loro lance le stazioni petrolifere e le strade che conducono ad esse; fossero strade o fiumi.
Siamo onorati di averne conosciuto qualcuno.

Oggi si scontrano due maniere diverse e opposte di vedere il mondo.
Popoli ancestrali lottano per sopravvivere, oggi come ieri resistono per il pianeta e per la vita.
Le loro terre sono ancora pure e nonostante 500 anni di colonialismo e di sfruttamento continuano a mantenersi intatte.
La loro causa e la stessa che ha spinto Tupac Amaru a sacrificare la sua vita e quella del suo popolo pur di rivendicarne l' esistenza.
Il Perù è al centro del mondo e, dagli sviluppi delle lotte indigene, il mondo potrà sapere quale sarà il suo destino:
Se di complicità con la Natura, la Pachamama, o se di distruzione in nome di falsi principi e di illusori sogni economici.

I fatti di Andoas, di Bagua e delle lotte native dovrebbero interessare il mondo intero.
E la consapevolezza non basterà senza un appoggio attivo.
I popoli andini come quelli della selva sono custodi del cuore della terra.
Senza di loro si estinguerebbero per la contaminazione e il saccheggio centinaia di piante e di animali.
Con la loro scomparsa se ne andrebbero conoscenze ancestrali come quelle della Pachamama.
Conoscenze di ecosistemi e di piante che andrebbero perdute o mal utilizzate.
Grazie a foglie come quella di Coca culture preincaiche come la Chavin(1000 a.c./1200 d.c.)o la Tiawanaco(700 d.c./ 1200 d.c.) furono in grado di attuare complicate operazioni chirurgiche al cranio; oggi stesso questa foglia è sacra per i popoli andini.
La coca si può utilizzare come anestetico,analgesico gastrico e digestivo.
Può essere utilizzata contro le punture e i morsi di zanzare o ragni così come per alleviare l'asma e il mal d'altura.
Questa foglia, dichiarata diabolica dal Cristianesimo nel 1535 perchè considerata idolatrica e satanica, è la piu antica pianta andina.
E' una foglia sacra utilizzata in qualsiasi cerimonia.
Nelle città minerarie come l' hermosa Potosi durante il periodo coloniale la coca era usata come moneta dai conquistadores.
La terra andina, come quella della selva, è un centro d'energia che avvolge le conoscenze antiche dell'umanità.
Aver scoperto certi luoghi è come aver scoperto le proprie origini.
Andare a Tingo vicino a Chachapoyas, contrattare il prezzo con una famiglia di contadini per farsi prestare due cavalli, sellarli al chiarore dell'alba andina e
percorrere un dislivello di 800 metri per conoscere la fortezza inca di Kuelap situata sulla cima di un monte andino a 3500 m.s.l.m è fare un ritorno al passato.
Raggiungere la cascata di Gocta, la terza più alta del mondo, dopo una camminata ripida
di 15 chilometri attraverso monti vergini e ruscelli argentati arricchisce lo spirito quanto stanca fisicamente.
Vivere seguendo il ciclo solare nel centro della selva umanizza così quanto l'energia che traspare da villaggi lungo il Rio delle Amazzonia come il pueblo La Libertdad.
Imbattersi in paesaggi quali il Salar di Uyuni o il Sud Lipez è di un fascino totale; queste terre sembrano appartenere ad altri pianeti.
Inoltrarsi in moto per i dintorni di Iquitos e di Tarapoto senza una meta precisa se non la selva stessa è ossigeno per l'anima così quanto lo è parlare con un pescatore Aymara di Copacabana sul lago Titicaca o con una coppia di andini che ci hanno ospitato a Chachapoyas per offrirci del Cuy al forno; una sorta di porcellino d' India che durante il periodo Inca era un alimento base.
Belem, la povera e incredibile Venezia della selva.
La comunita Awajhun che ci ha dato l'onore di presenziare ad una riunione dei rappresentanti indigeni svoltasi in una comunità nativa e riguardante i fatti di Bagua.
Cusco, le sue strade, e la valle sacra degli Inca; Aguas Calientes e la sua stazione, la camminata fatta prima dell alba per essere tra i primi a vedere Machu Picchu la mattina presto.
Gli occhi della gente andina, la città bianca di Arequipa, i suoi vulcani.
Differenti culture e modi di vivere simili e complementari tra loro grazie al loro rapporto con la Pacha Mama.
A Cusco gli spagnoli hanno saccheggiato ogni luogo cerimoniale precolombiano, fosse politico, sociale o religioso.
Al loro posto, sulle vecchie fondamenta hanno costruito poi Chiese e monasteri, città e municipi.
Da questi saccheggi è nata la moderna cultura europea e la sua idea di sviluppo come crescita.
Dalle miniere di Potosi è nata l'Europa moderna.
La stessa Europa sopravvive a se stessa con il legno e il petrolio dell'Amazzonia.
Ce ne andiamo a Tumbes, ultima città al confine con l'Ecuador, dopo aver fatto un po' di mare a Mancora e a Zorritos, spiaggia in questo periodo dell'anno desertica lungo la
quale l'acqua e più calda a causa delle correnti del Niño.
L'ostello che ci ospita è tutto in legno, in foglie di palma e bambu.
La cucina per i viaggiatori funziona solo a legna. E si trova accanto a dove dormono i venti cani peruviani del padrone dell'ostello.
In spiaggia prendiamo in prestito una zattera lasciata sulla sabbia da un pescatore della zona; tiratala in mare ci scagliamo contro le onde sentendoci un misto tra naufraghi e pirati.
Intorno occasionali pescatori camminano sul bagnoasciuga. A parte loro non c'è nessuno.
Salutiamo il Perù a Tumbes, città delle mangrovie, a pochi chilometri della quale si trova Puerto Pizzarro, dove nel 1535 sbarco l'omonimo conquistador Francisco dando via al saccheggio spagnolo in Sud America.
Continuiamo a Nord verso l'Ecuador e dopo un paio di giorni trascorsi a Guayaquil, città moderna a metà tra l'europea e la nordamericana, ci rechiamo a Montañita dove tuttora stiamo.
Un pezzo di noi è ancora in Perù.
L'alta presenza di turisti, i prezzi piuttosto cari e il brutto tempo costante ci faranno muovere a breve verso Villcabamba e ci faranno incrociare per un'altra volta le Ande e la sua gente.

.Martedì 8 Settembre 2009.




En Castellano:


. Montañita.

Nos hemos abandonado el Perú hace casi tres semanas.
Y resumir más de tres meses transcurridos entre el Perú y la Bolivia no es fácil, especialmente cuando se trata de decrivere encuentros, emociones, miradas, culturas, personas y impresiones.
El Perú es un mundo en el mundo. Contiene todo lo que la naturaleza tiene para ofrecer: las montañas
hielo y volcanes, ríos, tales como las arterias del planeta Ucuyali de Río y de la Amazonía y los desiertos como los que a lo largo de la costa, playas e islas como la de Paracas, el bosque y sus ecosistemas.
En el Perú se puede conocer el puma y anacondas como leones marinos y focas.
Usted puede viajar caminos como los de Miraflores en Lima (casino, restaurantes de comida rápida y hoteles) u otros como las inundaciones en Belén de Iquitos.
Puede conocer a los niños del colonialismo occidental moderna, como Lima de moda joven tanto como usted puede saber la gente que todavía vive en un ancestral de mantener viva la cultura de los pueblos que se derivan de precolombino.
En el Perú pulsan las raíces del mundo. Las culturas antiguas sobrevivirá a la globalización que quiere hacer de América Latina más 'La Gringa'.
En este ombligo del mundo hay lugares donde el cáncer que afecta el planeta todavía no ha echado raíces.
Durante estos tres meses de cientos de personas salieron de sus comunidades, desde el corazón de la selva o los Andes, de bloquear con sus cuerpos y sus lanzas estaciones de petróleo y de los caminos que conducen a ellos, eran las carreteras o ríos.
Nos sentimos honrados de haber conocido a alguien.
Hoy nos enfrentamos a dos formas distintas y opuestas de ver el mundo.
Población ancestral que lucha por sobrevivir, hoy como ayer resistir para el planeta y para la vida.
Sus tierras están siendo pura y, a pesar de 500 años de colonialismo y la explotación siguen siendo intacta.
Su caso es el mismo que llevó a Túpac Amaru a sacrificar su vida y la de su pueblo sino para reclamar la existencia l '.
Perú es el centro del mundo, y de los avances en las luchas indígenas, el mundo sabrá cuál será su destino:
Si la complicidad con la naturaleza, la Pachamama, o la destrucción en nombre de falsos principios económicos y sueños ilusorios.
Los hechos de Andoas de Bagua y las luchas de nativos que el interés del mundo entero.
Y la conciencia no es suficiente sin el apoyo activo.
Los pueblos andinos como los de los bosques son los custodios del núcleo de la Tierra.
Sin ellos de desaparecer por la contaminación y el saqueo de cientos de plantas y animales.
Con su desaparición, deben ser los conocimientos ancestrales como los de la Pachamama.
El conocimiento de los ecosistemas y las plantas que se perdería o mal utilizados.
Con hojas de coca como Pre-culturas incas como Chavín (1000 ac/1200 DC) o Tiawanaco (700 DC / DC 1200) fueron capaces de poner en práctica una complicada intervención quirúrgica en el cráneo, hoy esta hoja es sagrada para los pueblos andinos .
De coca puede ser utilizado como una digestión anestésico, analgésico y gástrico.
Puede ser utilizado contra las picaduras y mordeduras de mosquitos o arañas, así como para aliviar el asma y las enfermedades de altura.
Esta hoja, que fue declarado en 1535 por el cristianismo diabólico porque se consideraba idólatras y Satanás, es la planta más antigua de los Andes.
Es una hoja de utilizar en una ceremonia sagrada.
Las ciudades mineras como "hermosa Potosí durante la época colonial de la coca se utilizó como moneda por los conquistadores.
Tierra andina, como el bosque, es un centro de energía que rodea el antiguo conocimiento de la humanidad.
Han descubierto algunos lugares es como descubrir sus orígenes.
Ir a Tingo, cerca de Chachapoyas, negociar el precio con una familia de agricultores y pedir de prestarnos dos caballos ensillados en el resplandor de la aurora Andina,
a lo largo de una caída vertical de 800 metros, para conocer la fortaleza inca de Kuelap que se encuentra en la cima de una montaña de los Andes a 3500 metres, es hacer una vuelta al pasado.
Llegar a la catarata de Gocta, la tercera más alta del mundo, después de una caminata, empinada,
de 15 kilómetros a través de montañas y ríos de plata virgen enriquece el espíritu asì como cansa físicamente.
Vivir a lo largo del ciclo solar en el centro de la selva humaniza quanto la energía que emanan los pueblos a lo largo del río Amazonas como el pueblo de Libertad.
Reunirse con los puntos de vista, tales como el Salar de Uyuni y Sur Lipez es un encanto total; estas tierras parecen pertenecer a otros planetas.
Avanzar en moto a los alrededores de Iquitos y Tarapoto, sin meta, si no la misma selva, es oxígeno para la alma asì como lo es hablar con un pescador aymara en Copacabana en el lago Titicaca, en los Andes, o con una pareja que nos ha convidado en Chachapoyas para darnos el Cuy al horno, una especie de raton de la India, que durante el periodo Inca era un alimento básico.
Belem, la pobre e increíble Venecia de la selva.
La comunidad Awajhun que nos dio el honor de asistir a una reunión de representantes indígenas que se celebró acerca de los hechos de Bagua.
Cusco, sus calles, y el Valle Sagrado de los Incas, Aguas Calientes y su estación, el paseo realizado antes del amanecer para estar entre los primeros en conocer Machu Picchu en la madrugada.
Los ojos de la gente de los Andes, la ciudad blanca de Arequipa, sus volcanes.
Las diferentes culturas y formas de vida similares y complementarias entre sí a través de su relación con la Pacha Mama.
En Cusco los españoles saquearon todos los centros ceremonial Inca, seyan de carácter político, social o religioso.
En su lugar, sobre los viejos cimientos fueron construidos iglesias y monasterios, ciudades y municipios.
A partir de este saqueo nació la cultura europea moderna, y su idea del desarrollo como el crecimiento.
De las minas de Potosí, nació la Europa moderna.
La propia Europa sobrevive a sí mismo con la madera y el petróleo de la Amazonía.
Vamos a Tumbes, la última ciudad en la frontera con Ecuador, después de un pequeña sosta en Máncora y Zorritos, playa que en esta época del año es desiertica y onde
la agua del mar está más caliente debido a la corriente de El Niño.
El albergue onde quedamos es todo en madera, hojas de palma y bambú.
La cocina sólo funciona con madera. Se encuentra al lado de donde duermen los vienti perros peruanos de l'hostal.
En la playa tomamos prestada una balsa de un pescador de la área, la tiramos en el mar, nos deitamos-nos contra las olas, sintiendonos una mezcla de náufragos y piratas.
Alrededor de nos sòlo hay pescadores que de vez en cuando caminano por bagnoasciuga. Aparte de ellos no hay ninguno.
Despedimos el Perú en Tumbes, ciudad de los manglares, a pocos kilómetros de los cuales se encuentra Puerto Pizarro, donde en el 1535 desembarcó el conquistador Francisco Pizzarro empezando el saqueo español en América del Sur.
Seguimos hacia el norte a Ecuador y después de un par de días en Guayaquil, una ciudad similar a una moderna europea o a una norteamericana, vamos a Montañita, donde todavia quedamos.
Un pedazo de nosotros todavía està en Perú.
La alta presencia de turistas, los precios bastante caros y el mal tiempo constante, nos moverá pronto por Villcabamba haciendonos cruzar de nuevo los Andes y su gente.

. Martes, septiembre 8, 2009.

giovedì 23 luglio 2009

Il genocidio di Bagua. Le testimonianze e i desaparecidos.



.Bagua Grande.

Arriviamo a Bagua Grande (Distretto El Milagro-Utcubamba) il 21 Luglio.
Il pullman che ci porta fin qui da Pedro Ruiz giunge la sera al crepuscolo.
Il tasso d'umidità è altissimo e incolla i vestiti alla pelle, le strade sono trafficate dai soliti moto-taxi e la città è costruita intorno alla centrale Plaza de Armas.
La fantasia nel dare i nomi alle piazze non è eccelsa.
Ci mettiamo subito in cerca di un ostello economico e, dopo averne visitati una manciata, scegliamo il più conveniente oltre che uno dei più centrali che si trova accanto al commissariato di polizia.
Il giorno successivo, appena svegli, ci precipitiamo ad uno dei tanti posti dove fanno frullati freschi di frutta tropicale.
Ne beviamo uno a testa consistente in un litro di banana, papaya, ananas, carote e pomodori e facciamo due passi sotto il sole per il piccolo centro cercando di digerirli il più in fretta possibile.
Dopo poco ci dirigiamo verso la parrocchia in cerca del prete locale.
A mezzogiorno dà la sua disponibilità per accoglierci; ci presentiamo, ci fa sedere e ci racconta.
Siamo qui per il Baguazo gli diciamo; per raccogliere informazioni sul massacro degli Awajun, sui desaparecidos, per ascoltare le voci di chi quel fatidico 5 Giugno c'era.
Siamo a Bagua.
Questa città e i suoi dintorni il 5 Giugno sono stati teatro di una delle atrocità peggiori che siano avvenute negli ultimi anni in Perù e in Latino America.
A trenta minuti in auto da qui seguendo la strada per Jaen si trova la curva del diablo così chiamata per la sua pericolosità e per il fatto che decine di camionisti vi hanno perso la vita.
La strada è cruciale per il commercio e a vederne l'asfalto sembrerebbe piuttosto recente.
C'è una piccola curva a cui segue un rettilineo di circa 700 metri alla fine del quale segue una violenta svolta a sinistra.
Questa è la curva del diablo.
Il paesaggio sembra quello di un vecchio film western; piante grasse e cactus fanno da padroni tra le case costruite in terra che si incontrano lungo il percorso.
C'è un vento fortissimo che solleva la sabbia del terreno arido e quasi desertico, l'ossigeno al paesaggio è fornito dal rio Huallaga che accompagna la strada sulla destra distante a circa un chilometro.
Il prete, padre Castinaldo (peruviano di Bagua) racconta..
A quanto ne sa i poliziotti morti sono stati 24, 12 dei quali caduti a Bagua Grande negli scontri con i cittadini.
Parla di 8 nativi morti alla curva del diablo, di un numero imprecisato di desaparecidos e di oltre 100 feriti trasportati a Bagua e a Chiclayo.
In quest'ultima sulla costa hanno portato i più gravi.
Non era alla curva l'alba del 5 Giugno; era alla parrocchia ma presto a Bagua sono arrivate le notizie degli scontri.
La gente,non appena saputo ciò che stava accadendo si è radunata per le strade.
Anche qui in città sono arrivati i poliziotti che per disperdere la gente non hanno esitato a sparare; 6 cittadini tra cui due moto-taxisti e una giovane professoressa sono morti sul colpo.
In città e persino alla frapperia si possono vedere alcuni buchi che le pallottole hanno lasciato sui muri e sulle serrande che i negozianti hanno presto abbassato non appena sentiti gli spari.
Molte persone avevano reagito esprimendo la loro rabbia fuori dal commissariato adiacente all'Hotel Montecristo dove ora alloggiamo.
Padre Castinaldo racconta di quanti nativi nelle ore seguenti alla mattanza si siano rifugiati in città perseguitati dalla polizia.
La parrocchia cittadina per cinque giorni ha dato rifugio a 804 nativi Awahjùn, donne e uomini.
Dopo cinque giorni questi hanno fatto ritorno alle loro comunità distanti dalle 4 alle 8 ore in macchina da Bagua, direzione nord.
Hsnno fatto ritorno dopo che la diocesi è riuscita a garantire la loro sicurezza nel tragitto.
In 804 hanno fatto ritorno stipati su 13 camion.
Quel giorno alla curva del diablo gli Awahjùn erano in cinquemila.
In 5000 hanno occupato 700 metri di strada per 54 gioni; l'hanno occupata in maniera pacifica al grido di 'La Selva non se vende,la selva se defiende!' protestando contro i decreti legge di Garcìa e contro il Trattato di libero commercio siglato dal governo con gli Usa di Obama.
Tutto è proseguito pacificamente fino alle sei del mattino del 5 Giugno.
Allora le forze speciali della polizia senza alcun preavviso sono arrivate dalla collina che sovrasta a Sud la curva del diablo.
Sono arrivati armati come in guerra con la copertura di un elicottero dell'esercito e di un altro bianco della polizia.
La Fiscalia ha appena dichiarato che gli Awahjùn non avevano con sè armi da fuoco ma solo le lance che li rappresentano come popolo dalle radici ancestrali.
Gli Awahjun si dividono in 113 comunità, ciascuna rappresentata da un Apu, dislocate a nord di Bagua nella selva quasi fino al confine con l'Equador.
Gli Awahjùn sono stati tra i pochi a non essere stati conquistati dal popolo Inca.
La loro storia è millenaria come le loro tradizioni, la loro terra e la loro conoscenza di essa.
Molti di loro hanno servito l'esercito peruviano; molti di loro sono professori, ingenieri o avvocati.
Ma a Lima e nel mondo c'è chi ancora li dipinge come cannibali, selvaggi ed ignoranti solo per il fatto di vivere in armonia con la natura e di non essere globalizzati.
Parliamo con Castinaldo circa un'ora e, saliti su un piccolo furgone che va verso Jaen, ci siamo fatti lasciare alla Curva del Diablo.
Prima della curva ci sono un cumulo di case costruie in terra e lamiere ; queste case compongono il piccolo (eufemismo) villaggio di Primavera.
Al di là della curva altre case formano invece il vilaggio di Siempre Viva.
Le case di Primavera saranno in totale poco più di una decina; molte di queste sono abitate solo occasionalmente perchè fanno parte di terreni (chakra) che la gente viene a coltivare dalla città solo alcuni giorni della settimana.
Il paesaggio è affascinante e spettrale; il caldo spacca le pietre ed il vento solleva cumuli giganti di sabbia che quasi rendono invisibile il rio Huallaga sulla nostra destra.
L'atmosfera è viva di morte e noi cerchiamo contatti con i locali e ci indirizziamo verso le casette seminate ai lati della strada.
Prima saliamo il cerro,il colle, che sormonta sul lato sinisro la strada e che si distende per centinaia di metri.
Incontriamo cumuli di una specie di segatura; la terra è per molti tratti bruciata e incenerita; c'è una grossa buca con alcuni rifiuti e a tratti ci sono come bruciature con colate di, non capiamo, se plastica nera bruciata o cemento.
Proseguiamo per un altro centinaio di metri; la vista è maestosa, mulinelli di sabbia trasportata dal fortissimo vento rendono l'orizzonte quasi invisibile; il rio si sdraia al di là delle palme. Il rumore circostante è quello dei fischi dell'aria.
In cima al cerro che s'innalza sull'asfalto c'è una croce bianca postavi il 5 Luglio durante una cerimonia a cui hanno partecipato anche alcuni Awahjùn, una cerimonia in memoria dei caduti.
A lato della croce una bandiera bianca è quasi strappata dal palo a cui è issata a causa del vento.
Viene da mettersi in preghiera se si fosse religiosi; ci immaginiamo lì il 5 Giugno ma l'immaginazione non può nemmeno avvicinarsi a comprendere ciò che è stato.
Camminando tra la sabbia e schivando piccoli cactus riscendiamo lungo la strada e ci avviciniamo ad un'abitazione; ci facciamo sentire per avvisare del nostro arrivo.
I cani ci vengono incontro abbaiando e un ragazzino ci guarda curioso aspettandoci al valico di una piccola casa.
Siamo qui per 'investigare' sui desaparecidos, sul Baguazo come lo chiamano qui.
Una signora con un bambino in braccio vorrebbe parlare ma arriva un anziano mulatto dai capelli bianchi cotonati che ci si para innanzi e ci accoglie.
Il fisico nerboluto da contadino lo fa sembrare uno zio Tom di inizio secolo.
Gli facciamo qualche domanda; gli chiediamo se ha visto ammazzare qualcuno, se ha incontrato qualche cadavere, per quanto la polizia dopo il 5 Giugno ha isolato la zona..ma tutto ciò che riusciamo a farci dire è che lui al momento dell' enfrentamiento s'è chiuso in casa con la famiglia: Non ha visto niente.
Ci rivela però che la polizia ha reso inacessibile il passaggio sulla collina ,alla sinistra della strada dove c'è sta la mattanza, per due settimane.
Ce ne andiamo ringraziando la famiglia e indirizzandoci verso le case dislocate a cento metri.
Attraversiamo la strada e, appena ci avviciniamo alla baracca, veniamo accolti dai soliti cani con fare minaccioso.
Procediamo lentamente chiedendo permesso e solo dopo alcuni minuti una signora esce dalla porta e ci accoglie un po' titubante accompagnata dalla piccola figlia.
Ha le mani infarinate ma nonostante stesse cucinando ci ospita.
Le ripetiamo la solita solfa raccontandole del perchè siamo qui.
Non esita a parlare ma ci prega di non riprenderla con la piccola video camera.
All'alba del 5 Giugno era in casa con sua figlia; poco prima delle 6 sente i primi boati..inizialmente pensava fosse una sorta di festa patronale ma parlando con la sorella capisce subito dell'impossibilità della cosa visto che la strada è bloccata da 54 giorni.
In pochi istanti nel cielo vede due elicotteri che sorvolano l'area a bassa altitudine; un elicottero è militare, l'altro è bianco.
Da quello militare parte una bomba lacrimogena che colpisce il terreno al lato dei muri in terra dell'abitazione.
A questo lacrimogeno ne seguono molti altri lungo la strada e per tutto il monte.
L'aria si fa irrespirabile e lei afferra la figlia di otto anni e si rifugia alla casa della sorella distante una ventina di metri lungo il cerro.
La figlia sta male e per proteggersi si barricano in casa; intorno l'aria si fa acre e coltri di fumo rendono opaca la visibilità.
Gli spari degli Ak47 in dotazione alla polizia seguono a raffica; intorno regna il caos.
I nativi dalla strada occupata salgono verso i poliziotti; molti altri fanno il tragitto inverso e qualcuno di loro cade colpito dai francotiratori appostati sugli elicotteri dai quali sono lanciati i lacrimogeni in direzione delle case circostanti.
Scopriamo che sua sorella è la signora col bebè in braccio che abbiamo incontrato pochi minuti prima nella casa a valle; quella nella quale abbiamo parlato con lo zio Tom.
Ci dice che quest'ultimo non vuole parlare e che nutre simpatie per Garcìa e antipatie per i nativi.
Ci dice anche che la sorella ha visto un ragazzino Awahjùn di 16 anni essere ammazzato a sangue freddo mentre dormiva a lato della casa.
Ci racconta che molta gente ha paura a parlare.
Narra che per un mese i poliziotti hanno occupato il monte, il cerro, non facendo entrare nessun civile.
Racconta di come le forze dell'ordine (che per motto hanno Dio, Patria e Ordine) abbiano rastrellato casa per casa dopo le due ore di scontri cercando i nativi fuggitivi.
Racconta di quanto il tutto sia stato atroce e di come lei abbia raccontato ciò che ha vissuto testimoniandolo ad una radio locale.
Ci indica una casa più a valle un po' più distante dalla curva del diablo.
Ci consiglia di andare là per parlare con gli abitanti che hanno a disposizione un'arco di visibilità maggiore del cerro.
La ringraziamo, salutiamo la figlia e andiamo dove ci ha indicato.
Qui troviamo due case adiacenti, anch'esse in terra; fuori un cortile con un mototaxi parcheggiato e dei bambini che giocano aprofittando delle vacanze estive prolungate a causa della febbre suina.
Ci attende una signora che afferma di non essere stata presente il 5 Giugno; era a Jaen a lavorare.
Ci dice però di avere pazienza e di aspettare un po' che entro breve dovrebbe tornare dai campi suo cognato che sarebbe ben disposto a parlare.
Nel frattempo ci parla quasi commossa del popolo Awahjun non capacitandosi della brutalità della polizia e del governo.
Ci racconta che per un mese il colle è stato inacessibile e che il 5 Luglio, giorno nel quale c'è stata la cerimonia per i caduti durante la quale è stata issata la croce, alcuni presenti si sono inoltrati per i terreni trovando ossa grandi circa come una tibia umana.
Sono stati consegnati alla medicina fiscale di Bagua della quale non si fida molto data la vicinanza di questa al governo.
Aspettiamo un po' finchè non arriva il signor Reyes, uomo che ha superato i settantanni e che lavora come contadino per poter vivere.
Accompagnato dalla moglie che ci segue appoggiata al muro parla a ruota libera:
Ha servito l'esercito durante la guerra con l'Equador e vive qui a Primavera da più di ventanni.
Durante il blocco durato 54 giorni lui e sua moglie hanno dato a disposizione metà della loro casa a trenta donne Awahjùn perchè avessero un tetto sotto il quale dormire.
Dice di aver visto l'elicottero bianco abbassarsi sul luogo degli scontri per due volte per circa mezzora pe poi ripartire in direzione orientale.
Secondo lui stavano raccogliendo i cadaveri dei nativi per gettarli non si sa dove.
Ha visto la terra bruciare su quel colle per settimane con la polizia che vietava l'ingresso ai civili e che minacciava di ammazzare chi entrasse.
Lui stesso racconta di essere stato minacciato quando il 6 Giugno ha cercato di ispezionare il colle.
Questo è stato controllato per trenta giorni filati;la polizia ha rastrellato ogni metro quadrato di terra facendo sparire ogni traccia del massacro.
Dice che per ciò che è accaduto i morti potrebbero essere centinaia e non venti come dicono le fonti ufficiali.
Dice che la gente del posto non parla ma che tra loro compaesani parlano eccome; c'è chi racconta di aver visto sparare in bocca a ragazzi di ventanni tra le sterpaglie.
Ê un anziano magro e scolpito dal lavoro della terra, sembra quasi una tartaruga e ciò che che più lo scuote è il fatto che abbiano bruciato i corpi non degnandoli nemmeno di una sepoltura.
E lui il fuoco sul colle dice di averlo visto per giorni dopo quel 5 Giugno del 2009.
Dice che i 5000 nativi accampatisi lungo la strada per quasi due mesi hanno sofferto con una dignità e una forza d'animo indescrivibile il caldo e il vento dormendo per terra e sull'asfalto.
Dice che hanno tutte le ragioni del mondo; il governo non può derubarli, non può sfrattarli, non può ucciderli.
I poliziotti caduti sono morti colpiti dalle loro stesse armi sottratte loro dai nativi.
Mentre lavorava al campo qualche ora prima si è imbattuto in cinque guardie che cercavano il maggiore desaparecido da quel 5 Giugno.
Lui ha detto loro di non cercarlo nei suoi campi ma di chiedere al pilota di quell'elicottero bianco dove sia perchè solo lui può saperlo. Ha detto così persino al padre del maggiore che s'è recato a Primavera per cercare il figlio disperso, padre a sua volta di due figli.

Voci qui a Bagua raccontano che i nativi abbiano ammazzato il maggiore negli scontri per poi denudarlo dell'uniforme e dipingerlo in viso come un Awahjun.
La polizia scambiandolo per un nemico selvaggio l'avrebbe messo insieme agli altri cadaveri e l'avrebbe fatto scomparire.
Solo i piloti possono sapere dov'è.
Viene buio, salutiamo il signor Reyes e famiglia e scendiamo alla curva del diablo.
Chiediamo un passaggio; un pulmino ci carica e ci riporta a Bagua.
Oggi 23 Luglio siamo andati a Bagua Chica o meglio a Bagua capital.
Qui mentre mangiamo ad un ristorante conosciamo una ragazza che lavora commerciando una pianta medicinale curatrice del cancro chiamata unghia di gatto.
Ci dice che il 5/6 sono morti cinque cittadini negli scontri avvenuti con la polizia (stessa dinamica deli scontri di Bagua grande); uno di questi è un alunno minorenne.
Le parliamo del perchè siamo qui a Bagua e ci consiglia di attraversare la strada per recarci all'Hostal Katty solitamente frequentato da gente Awahjun.
Ci andiamo, saliamo al secondo piano.
In televisione c'è la partita di pallavolo femminile Perù-Venezuela e il Perù sta dominando il terzo set.
Conosciamo un signore Awahjun che il 5 Giugno (e pure i 54 giorni precedenti) era alla Curva del Diablo; gli chiediamo se possiamo filmarlo per raccogliere una testimonianza ma risponde di aspettare..
Deve chiamare l'Apu della sua comunità per avere il permesso.
Torna dopo un quarto d'ora invitandoci per domani (24 Luglio) a Yamayakat-Imacita, comunità Awahjun dove si incontreranno gli Apu di tutte 113 le comunità native.
Decideranno come continuare la lotta di fronte all'intransigenza assolutista del governo Garcìa che sta cercando di costruire un Aidisep parallela, comprata, con cui negoziare (tipo gli ebrei che nella seconda guerra mondiale trattavano coi nazisti i loro commerci, vedi Rotschild tuttora a capo della finanza mondiale).
Ma soprattutto cercheranno di fare un censimento generale dei desaparecidos.
C'è chi parla di 120, chi di 200 e chi di un numero maggiore ancora.
Il 5 Giugno 5000 nativi erano in quella curva; molti non hanno mai fatto ritorno a casa e sembrano volatilizzati.
Noi questa notte alle tre andremo a Yamayakat-Imacita in cerca di Verità,
aspettando Giustizia, non miracoli!

.Giovedì 23 Luglio 2009.

martedì 21 luglio 2009

Por la carretera.






.Chachapoyas.

Le giornate a Iquitos si fanno monotone.
In un mese abbiamo seguito lo sviluppo della lotta popolare e indigena, il caso Andoas e il processo che si svolge tuttora nella sala penale del tribunale di piazza 28 de Julio.
Abbiamo appoggiato e documentato le marce, i blocchi, le assemblee popolari e le riunioni cittadine.
Abbiamo parlato con gli avvocati di José Fachìn, Marco Polo Ramires e John Vega Flores.
Nelle nostre potenzialità abbiamo cercato di far da megafono alle loro grida di sdegno e di rabbia.
Dopo un mese però a causa del tavolo di dialogo di Lima (instaurato solo per prendere tempo e per far buon viso a cattivo gioco di fronte all'opinione pubblica e a quella internazionale) la situazione sembra assopita, la lotta addormentata, anestetizzata. In stand-by.
Il malcontento è sempre forte e con esso la delusione nel vedere alcuni rappresentanti prestarsi ai negoziati del governo che cerca di comprare i leader delle varie comunità senza di fatto far marcia indietro in quello che è il Trattato di libero commercio e la privatizzazione dell'Amazzonia e anche delle Ande.
E' una fase di stallo, di immobilismo.
Il clima è umido e a tratti asfissiante e la città ormai la conosciamo molto bene tanto da non saper più dove sbattere la testa. Inoltre il caos tremendo del capoluogo di Loreto è un trapano nel cervello.
Decidiamo quindi di abbandonare la città, approfittando della pausa del processo sul caso Andoas, per fare qualche giro fuori Iquitos e chiudere con qualche giorno nella selva per purificare mente e corpo.
Affittiamo una Honda rossa scarlatto vecchia ma con una ripresa molto prestante; facciamo il pieno e zaino in spalla andiamo ad esplorare i dintorni iquiteñi.
Prendiamo la strada per Nauta e ci inoltriamo lungo il serpente d'asfalto facendo zig zag tra gli innumerevoli moto-taxi e svoltando ad ogni strada sterrata che incontriamo lungo il cammino.
Una di queste è una strada piena di buche che si infila tra palme e fitta vegetazione.
Ai nostri lati capanne e baracche fanno da sfondo.
Ci inoltriamo per qualche chilometro col fondoschiena che risente del terreno incidentato fino a arrivare in qualche piccolo paese dove la vita sembra scorrere fuori dal tempo.
In mezzo alla strada ragazze e bambini fissano reti occasionali per giocare a pallavolo (sport praticatissimo nel paese) e noi ad ogni campo improvvisato rallentiamo e abbassando la testa passiamo sotto le reti per continuare lungo il percorso.
Ai lati campi da calcio in terra con porte costruite con piccoli tronchi si susseguono tra file di case e piccoli negozi di paese che vendono giusto l'indispensabile.
La gente ci osserva incuriosita inoltrarci verso la periferia selvatica.
Arriviamo nei pressi dell'aeroporto dopo aver superato il paese di San Juan, patrono della foresta amazzonica.
Accostiamo l'aeroporto proseguendo verso non sappiamo dove.
La strada incidentata ci conduce ad un piccolo paese che al suo ingresso presenta un cartello con scritto Laguna Azul. Paese di 150 anime sprigionante energia naturale e senso assoluto di quiete ed equilibrio.
Un piccolo fiume fiancheggia il villaggio e uomini e donne qui si lavano, fanno il bucato, pescano e nuotano per avere una tregua dal caldo umido a tratti insopportabile.
All'orizzonte vediamo un ponte alto circa tre metri che svolta a destra per ricollegarsi ad una stradina anch'essa sterrata.
Alcuni signori costruiscono delle canoe tagliando dei tronchi e scavandoli con degli scalpelli.
Il ponte è costruito con assi di legno di circa 20 centimetri le une in successione alle altre; il problema è che ogni tot alcune scompaiono lasciando piccoli vuoti che rendono visibile la laguna sotto i piedi..
Divertiti accendiamo la moto e percorriamo il ponte provando qualche brivido quando le ruote superano i vuoti lasciati dalle assi marce.
Alcuni dei presenti e tra questi i falegnami ci osservano divertiti.
Continuiamo fino ad arrivare dopo un paio di centinaia di metri al paese di Santa Clara che si stende sul fiume Nanay.

Questo paese di pescatori di circa 4000 persone si localizza intorno alla piccola piazza centrale e finisce sul fiume, in questa stagione ancora alto, dove baracche fluttuanti in armonia col rio servono birra fresca, pesce e succhi di frutta.
Qui c'è la famosa spiaggia di Santa Clara dove la gente del posto si riversa nel fine settimana quando il fiume è basso e dà alla luce innumerevoli spiaggette.
Ci fermiamo per goderci il tramonto sorseggiando una Pilsen ( cerveza locale) ma non facciamo in tempo a scendere dalla Honda che due uomini si sbracciano invitandoci al loro tavolo su una delle piccole baracche-bar-ristoranti-discoteche fluttuanti.
Accettiamo l'invito e ci sediamo; sul tavolo rotondo di plastica le bottiglie di birra da 66 cl vuote sono una dozzina.
L'atmosfera è divertente e piacevole ed uno dei ragazzi è visibilmente allegro per via del luppolo, l'altro è più silenzioso.
Nel fiume qualcuno nuota e qualcuno mette a mollo i vestiti.
I colori si fanno pastello e la luce tramontina del sole splende sulle acque scure del Nanay.
Hanno 24 e 28 anni; entrambi sono fidanzati, convivono ed hanno figli.
L'allegro ventottenne dice di avere due donne che ama in ugual maniera.
La madre di suo figlio vive la situazione senza problemi e lui racconta quanto lei sia comprensibile e amabile.
Sono entrambi pescatori e sono amici sin da piccoli; lavorano insieme lungo il fiume da quando avevano dieci anni.
Sono come fratelli.
Il più giovane lentamente si lascia andare e si chiacchiera piacevolmente.
Eric, il ventottenne, ci parla della sua famiglia; ha due fratelli che hanno studiato a Lima, uno avvocato e l'altro ingegnere.
Racconta di quanto sia diverso dai suoi fratelli, di quanto lui preferisca la pratica all'accademia, parla della sua conoscenza dell'Amazzonia.
Ha lasciato la scuola per la pesca.
Gli piace vivere così, in maniera naturale e in armonia col polmone della terra nel quale vive.
A otto anni già pescava ed era di casa lungo il fiume.
Ci parla di curanderismo, di medicina tradizionale e di piante.
E' felice e lo si vede da come ci guarda.
Si stanno riposando al tavolo e stanno bevendo per festeggiare il ritorno a Santa Clara dopo quattro giorni di pesca e di accampamento lungo il rio Nanay nell' Amazzonia.
Hanno catturato una piccola manta che venderanno ai giapponesi.
Si fa quasi buio e delle nuvole minacciose e piene di pioggia si avvicinano; ci salutiamo, ci abbracciamo e torniamo ad Iquitos.
Nei momenti morti di piccole escursioni come questa ne abbiamo fatte molte:
A Quistococha e alla laguna ricca di leggende secolari dove abbiamo abbracciato l'anaconda e dove per ricevere il resto dell'acquisto di due acque e di due tortillas abbiamo dovuto aspettare due ore..
A Belèm, la Venezia dell'Amazzonia, periferia di Iquitos..
Qui il paese è costruito dentro il rio delle Amazzoni; baracche e palafitte si susseguono galleggianti sull'acqua, la scuola,le chiese e parte del grande mercato emergono dal fiume.
Si può visitare in canoa o in piccole barche a motore.
Si passa tra le strade inondate; i pali della luce sono quasi totalmente sommersi, dei campi da calcio si intravede solo la traversa delle porte che emerge.
I cani delle famiglie prendono il sole sdraiati nel cortile galleggiante di casa.
Le barche portano i ragazzi a scuola.
La gente va da una casa all'altra o in barca o nuotando.
E' qualcosa di magico e d'armonioso.
Anche perché Belèm non è piccola.
Il suo mercato è grande come un quartiere.
Parte di esso è costruito sulla strada, parte sul fiume.
Vicoli stretti e caotici colmi di baracche e di merce si incrociano e scendono dalla strada asfaltata al fiume.
Verdura, carne, tabacco, vestiti, scimmiette e galline, pesce, giochi, attrezzi..si vende di tutto al mercato di Belèm.
Il vicolo più caratteristico e affascinante è quello delle erbe e piante medicinali;
infusi per curare il diabete, altri per problemi di circolazione, altri ancora per dolori mestruali o intestinali.
Piante che curano il mal di stomaco, radici per la pelle, cortecce per dolori dovuti all'artrite.
Erbe che curano lo spirito e il corpo, piante secolari usate da sciamani e curandeiros.
Tutto questo in un piccolo vicolo lungo una cinquantina di metri; ai lati le tende sono dislocate una in successione all'altra.
Le signore vengono da San Juan e dalla selva per vendere le loro medicine.
A fine giornata tutti i rifiuti vengono assiepati in una piccola stradina dove prima del tramonto alcune donne e bambini vengono a trafugare in cerca di resti commestibili.
Corvi giganti stanno sopra le loro teste e tra di loro, a trafugare anch'essi.
Il tutto sembra di una normalità incredibile.
Abbiamo scritto con un indelebile nero su un paio di magliette bianche ¡Yo no soy gringo! stufi di essere chiamati gringo dalla gente.
I primi risultati in senso positivo li abbiamo riscontrati allo stadio di Iquitos dove gioca la squadra del CNI ( Collegio Nazionale di Iquitos) che lotta per la salvezza.
E' l'unica squadra loretana presente nel campionato peruviano.
E' un'istituzione per i loretani dato che Loreto è una regione enorme, la più grande del Perù.
Ci mettiamo in coda alla biglietteria in un corridoio limitato dalla presenza dei poliziotti e ci apprestiamo a comprare due biglietti per la Sur, la curva dove stanno gli 'hinchas' del Cni.
Paghiamo otto soles (circa due euro) ed entriamo incuriositi; nel nostro immaginario le curve latino-americane sono tutte come quelle dell'Estudiantes di La Plata di Veron (fresco vincitore della coppa Libertadores), del Boca, del San Paolo, dell'Allianza Lima e così via.
Una volta saliti sugli spalti vediamo che nello zoccolo duro della curva i bambini sono i protagonisti.Siamo sorpresi.
Lo stadio è nuovo, ha circa due anni; contiene fino a 25.000 persone sedute ai quattro lati del campo in sintetico.
Il Cni naviga nelle zone basse della classifica ,viene da dieci sconfitte consecutive e deve assolutamente vincere.
Il suo faro è Carlos Barrena meglio conosciuto come El Chato; 24 anni,trequartista poco più alto di un metro e sessanta.
La partita è tesa e ne risente lo spettacolo ma il Cni si porta in vantaggio e chiude i conti nel secondo tempo concludendo sul 2 a 0.
Sugli spalti nasce una Ola alla quale tutti partecipano facendole fare almeno cinque giri dello stadio.
Gli spettatori applaudono e nell'uscire dagli spalti i bambini e alcuni adulti ci danno pacche sulle spalle e ci rivolgono sorrisi soddisfatti per la vittoria..e per la nostra maglietta.
Lungo il ritorno verso casa ci imbattiamo in due anziani che ci fermano incuriositi dalla presenza di due stranieri.
Ci chiedono da dove veniamo, cosa facciamo e, stupiti dal nostro interesse per la lotta popolare indigena e pensandoci due giornalisti di chissà che calibro, ci abbracciano chiedendoci di denunciare al mondo ciò che sta succedendo nel paese; il genocidio dei nativi che quando non è dovuto ai proiettili dei cecchini come a Bagua deriva dalla politica ultraliberista del Governo; dalla contaminazione e dello sfruttamento dell'Amazzonia da parte di imprese petrolifere e minerarie.
Sanno anche loro che le guerre di domani saranno per l'acqua.
Si sentono in pericolo come popolo e ci chiedono appoggio.
Diciamo loro che faremo tutto il possibile ma che l'apatia e l'ignoranza sono un cancro in Italia, nazione che loro, come molti altri immaginano sviluppata e moderna.
Affamati li salutiamo e andiamo verso casa dopo aver scambiato i numeri di telefono.
Torniamo allo stadio altre due volte lungo la nostra permanenza ad Iquitos e ci scopriamo porta fortuna dato che la squadra vince entrambe le partite grazie alle ottime serpentine del 'Chato'.
Lasciamo il CNI quartultimo( retrocedono le ultime tre) con quattro punti di vantaggio sulla squadra che la segue.
Ce ne andiamo da Iquitos per fare qualche giorno avvolti dal silenzio della Selva.
Quando torneremo dalla foresta lasceremo definitivamente Iquitos per continuare il nostro viaggio verso Tarapoto, Chachapoyas e Bagua grande.
Prima di andarcene salutiamo John Vega Flores, amico nativo Kichwa vittima come tanti del sistema peruviano e mondiale.
Ci informa che a Teddy Guerra Indama (Apu della comunità nativa di Andoas durante i fatti del Marzo del 2008 e incarcerato da oltre un anno senza essere stato ancora giudicato) all'ennesima richiesta degli avvocati è stata concessa la libertà vigilata.
Può rincontrare finalmente la moglie e i figli, uno dei quali nato durante la prigionia.
Resta in carcere Saulo Sanchez Rodrigues.
Intanto il Governo cambia pelle col nuovo Premier della Repubblica; Javier Velàsquez Quesquén ma non nella sostanza.
Non è stato fatto nessun passo indietro; dieci dei dodici decreti legge che saccheggiano il Perù, l'Amazzonia e con essa il mondo continuano a esistere; la radio La Voz di Bagua continua ad essere costretta a a tenere chiusi i battenti a causa del Governo che la vuole imbavagliare ( è in atto una grande campagna di solidarietà portata avanti dall'Associazione nazionale dei giornalisti del Perù-ANP-, dal popolo e da giornalisti provenienti da tutto il Sud America); gli accordi di sfruttamento petrolifero con le compagnie petrolifere straniere continuano imperterrite e peggio di prima (Alan Garcìa ha venduto centinaia di ettari per l'estrazione del greggio alla Perenco); a Bagua continuano a piangere i desaparecidos; il paese è sempre militarizzato e Alberto Pizango, presidente dell'Aidesep continua ad essere in esilio in Nicaragua insieme agli altri rappresentanti.
Il Governo sta cercando di delegittimare i rappresentanti indigeni dando parola e intavolando accordi con pseudo rappresentazioni native ( rappresentative di nessuno e condannate dalle loro stesse comunità che dicono di rappresentare) di fatto comprate.
E anche i contadini sono in lotta in tutto il paese, specie nella regione di Cusco.
Il 5 Luglio manifestazioni popolari a Bagua e a Lima sono state represse nel sangue con centinaia di arresti.
Ma l'informazione internazionale tace e fa il gioco del Governo negando il problema e affermando che la situazione di fatto si è risolta con l'abrogazione del decreto 1020 e il 1064. Vittoria dei popoli della selva e passo indietro del Governo..
Perchè non cita il trattato di libero commercio o gli altri dieci decreti ancora in vigore come il decreto 1081 che crea il sistema nazionale di risorse idriche e apre ad una possibilità rispetto alla gestione privata dell'acqua contro il diritto delle comunità di gestirle autonomamente?
Andiamo nella selva per staccare la spina e ritrovare un po' noi stessi.

. Martedì 21 Luglio 2009 .

venerdì 3 luglio 2009

Prima di Bagua fu Andoas

.Iquitos.


Intervista a John Vega Flores, nativo Quichwa, abitante della comunità di Andoas.
Attualmente sotto processo per i fatti accaduti il 20, 21 e 22 Marzo 2008 a Nueva Andoas.

Video parte 1 Video parte 2 Video parte 3


(Da sinistra verso destra John Vega Flores, Marco Polo Ramires, Josè Fachin)



.Venerdì 3 Luglio 2009.

domenica 21 giugno 2009

11 Junio, Paro Regional!



.Iquitos.

In preparazione del paro generale dell'11Giugno il Comitè de lucha indigena ha lanciato una vigilia culturale dalle 20.00 in Piazza 28 Julio.
L'intento è quello di sensibilizzare la gente, di condividere sprazzi di cultura loretana e di prepararsi per attuare i blocchi stradali dalla mezzanotte.
Noi siamo tra i primi ad arrivare e nell'attesa ci sediamo, scattiamo qualche fotografia e facciamo qualche ripresa .
Lentamente la piazza si riempe e la folla si dispone a mezzaluna di fronte al palco allestito per l'occasione.
Tra il pubblico ci sono tantissime famiglie, bambini, anziani, studenti e nativi.
Prima di dare il via alle esibizioni l'amico/presentatore del partito nazionalista fa un riassunto degli ultimi giorni di lotta; elenca le atrocità commesse dal Governo a Bagua, le violenze fisiche e ambientali di cui sono responsabili le grandi transnazionali del petrolio da quarantanni; inneggia al decentralismo e all'orgoglio del popolo della selva e dei nativi.
L'energia che sprigiona contagia la gente che risponde urlando Venceremos!
Gli artisti intanto fanno le prove dietro alla statua che sta alle spalle del palco.
Cantanti, mimi, poeti, ballerini. Giovani, anziani, donne e uomini.
Il primo gruppo ad esibirsi sono stati gli Shalom amazzonico che hanno diffuso nell'aria melodie tradizionali con chitarre tipiche simili a mandolini, flauti, tamburi e zampoñas, strumenti a fiato ricavati da bambù.
Li ha succeduti un signore di mezza età con barba e occhiali; chitarra al collo ha fatto un'introduzione calorosa testimoniando le lotte epocali dei popoli amazzonici per poi invitare la folla attenta ad accompagnare le sue parole in canto.
Gli accordi sono seguiti da una voce poderosa che intona El pueblo unido jamàs serà vencido!
L'atmosfera è quasi commovente dall'energia che unisce le persone cantanti; pensavamo che certi canti popolari fossero finiti con le morti dei Guevara e degli Allende, solo in quella piazza ci siamo resi conti di quanto tutte le lotte dei secoli passati siano ancora attuali.
Ci guardiamo intorno e osserviamo gli occhi dei presenti, raramente si vedono così brillanti e vivi. Ne siamo contagiati, gli occhi sono lucidi.
La loro lotta empaticamente la sentiamo nostra pur venedo da un altro continente, così diverso e così perso in se stesso.
Al Pueblo unido segue un'altra canzone/novella sulla terra e sul petrolio e per un istante in quell'uomo vediamo De Andrè.
La folla impazzisce quando viene attaccato con ironia il presidente Garcìa.
Intanto alle spalle sull'obelisco centrale della piazza viene issato lo striscione del Comitè de lucha indigena.
Al signore segue un mimo che fa gioire i bambini presenti.
Dopo di lui una coppia di ballerini proveniente dalla scuola d'arte di Chiclayo danza per la gente; eleganti si spostano da un lato all'altro del palco fingendo di baciarsi e facendo ridere maliziosamente il pubblico ad ogni incontro ravvicinato e platonico tra le loro labbra.
Passano un paio d'ore e il presentatore ringrazia i presenti e invita questi ultimi a fare un applauso per i 'giornalisti italiani' presenti. Ci indica.
Un po' alla sprovvista per tanta attenzione rivoltaci ci alziamo e rispondiamo imbarazzati agli applausi dei 400 facendo un inchino impercettibile e toccandoci il petto in segno di riconoscenza e rispetto.
Prende la parola Miller Lopèz del Comitè che di fronte alle telecamere annuncia, come rappresentante, l'inizio del blocco.
Ribadisce l'intento decisamente pacifico della mobilitazione, invita a non cadere nelle provocazioni della polizia e dei militari e a non compiere atti vandalici nella paralizzazione di Iquitos.
Esprime il concetto della lotta per la propria terra dichiarando invincibile l'anima della gente nativa, dicendo che le morti e gli assassinii di Stato non fanno altro che rinforzare la lotta popolare.
Vengono prese pubblicamente le difese del lìder indigeno Alberto Pizango.
La piazza lancia unita un unico grido: Alan (Garcìa) Loreto ti ripudia! La selva non si vende, la selva si difende!
Intanto si organizzano i picchetti per bloccare le strade e dopo breve parte un corteo improvvisato dietro allo striscione del Comitato di lotta.
Ad aprire il corteo, ancor prima dello striscione, c'è un uomo che ha superato i 50 con un'asta spessa di legno lungo circa quattro metri; attaccata all'asta una grande bandiera del Perù e una bandiera nera che manifesta il lutto popolare per i 200 e più tra morti e desaparecidos di Bagua e per i 24 poliziotti la cui morte è dovuta all'irresponsabilità e alla corruzione morale del governo.
Il corteo si muove spedito e si ingrossa strada facendo; la gente applaude dalle finestre, i partecipanti urlano orgogliosi e irati.
E' un grande serpentone illuminato dai ceri portati dalle persone in segno di lutto.
La manifestazione è calda, molto calda.
Arriva la polizia. Due cordoni scortano ai lati ad estrema vicinanza i manifestanti che continuano nel percorso come se non esistessero.
La polizia non è il caso che rischi perchè la presenza della stampa è massiccia e la gente presente è disposta a tutto per rivendicare la propria esistenza.
Tutto scorre tranquillamente.
La mobilitazione continua fino ad arrivare nella centralissima Plaza das Armas per poi tornare in Piazza 28 de Julio.
Qui si dà appuntamento nella stessa piazza per il giorno sucessivo alle 15.00 per la grande manifestazione in programma in favore dei nativi e con i nativi.
Molti tornano a casa verso l'una, le due di notte; alcuni altri occupano le strade giocando a calcio o cucinando pollo e banane alla griglia.
Altri si fermano a chiacchierare condividendo qualche fetta di pane e qualche focaccia.
Ci sediamo sui gradoni ai piedi della statua e conversiamo con una signora; ci racconta gli anni della dittatura di Fujimori, ci parla dei desaparecidos, dei tradimenti nella lotta popolare..dei tradimenti di coloro che alla coerenza delle idee hanno preferito la corruzione politica; ci narra della repressioni, dell'esercito che ha visto sparare sulle folle, ci parla anche di quando per salvare la vita sua e della famiglia ha puntato una pistola alla schiena di un poliziotto che era venuto per saccheggiarle la casa e per intimidirla.
Ci parla dei compagni che continuano a lottare al fianco del popolo e che hanno per questo perso il lavoro, ora dormono per strada. Ci avverte di quanto questi ultimi siano sempre i primi a metterci la faccia.
E cita quelli che una volta erano compagni ed ora sono dall'altra parte della barricata.
Ci avverte anche del rischio che questa lotta per la sopravvivenza possa essere utilizzata da terzi per i loro squallidi giochi politici: La lotta indigena non è politica.
Non trattiene le lacrime, la voce è forte e vibrante allo stesso tempo. Nonostante tutto la sua fiducia è forte come la sua combattività.
Ci contagia.
Ci salutiamo dandoci appuntamento per la mattina quasi alle porte e continuiamo camminando per la città.
Incrociamo un blocco di una decina di persone legate alla Chiesa; la signora con cui parliamo è polacca ed è in mezzo ad un incrocio in Plaza das Armas.
Le chiediamo quale sia la posizione della Chiesa riguardo al blocco.
Ci risponde che i vertici non si schierano, che le scuole cattoliche non chiudono, che i preti di Iquitos (tutti stranieri) non si interessano e al massimo si fanno da intermediari.
Lei è la prima ad accusarli, dice che in Perù è quasi tutto in mano all'Opus Dei.
E' testimone di quanto siano ignavi coloro che la precedono nella piramide, attacca il Vaticano accusandolo di conservatorismo e immobilismo e un tal cardinale spagnolo che pochi giorni prima ha dichiarato che l'aborto è peggio della pedofilia.
Ma ci parla anche di padre Mario Bartolini che a Bagua aveva aperto Radio La Voz; il Governo lo vuole espellere dal paese, lo accusa di aver istigato i nativi alla rivolta, lo accusa addirittura di terrorismo e gli chiude la radio. Lui continua nella sua battaglia al fianco degli abitanti di Bagua.
La salutiamo, andiamo a casa per ricaricare le batterie della macchina fotografica e della videocamera e dopo un'ora torniamo in piazza aspettando l'alba e la giornata di lotta.
Qui alcuni studenti che stanno bloccando un'arteria cittadina ci invitano alla Casa del Maestro per parlare con Apu Marco Polo Ramirez Arahuanaza, rappresentante della Tribù Ashuar di Andoas.
Lo incontriamo e ci presentiamo.
Lineamenti duri, pelle scura, braccia forti e capelli lunghi, lisci e neri. Non può uscire dalla casa del Maestro perchè come rappresentante indigeno ha sulla sua testa un mandato d'arresto. Nonostante questo ci conferma la sua presenza alla manifestazione insieme a nativi Boras, Cocamas, Yahuas, Aguajun, Shawis e Ticunas.
E' sotto processo per i fatti di Andoas: Una comunità di 800 persone, vittime da quarantanni dei soprusi di Pluspetrol (corporation argentina), costrette a pescare e cacciare in territorio equadoregno, dopo avere visto le proprie acque contaminate dall'oro nero e i propri animali morire avvelenati, hanno deciso nel Maggio del 2008 di ribellarsi.
Hanno bloccato l'afflusso del greggio sabotando i gasdotti e occupato l'aereoporto; ne sono seguiti scontri con la polizia che, come a Bagua, non ha esitato ad aprire il fuoco.
Negli scontri è morto un poliziotto.
Marco Polo, come John e Josè Fachin, è accusato d'omicidio pur essendo stato fermato e detenuto (negli uffici di Pluspetrol) 24 ore prima dell'accaduto; rischia 23 anni di carcere ed è iniziato il processo giusto in questi giorni.
La comunità di Andoas, al confine con l'Equador, è stata la prima a ribellarsi ed è stata da esempio per le grandi lotte unitarie di cui sono protagonisti oggi i nativi della selva e delle Ande.
Per questo per loro sono previste pene esemplari. Intanto gli hanno bloccato ogni sorta di finanziamento proveniente dalle organizzazioni native e non.
Chiacchieriamo con Marco Polo e Josè Fachin per un'ora; facciamo la colazione comunitaria a base di te bollente con latte, anice e pane secco nella Casa del Maestro.
Nel frattempo arrivano molte persone e ci si organizza per continuare i blocchi e per fare un piccolo corteo per continuare nella sensibilizzazione.
Miller Lopèz del Comitè apre la piccola marcia.
Sono una trentina di persone, come più o meno ad ogni blocco.
Ci si apposta ad un incrocio per fermare i pochi mototaxi che stanno facendo i krumiri; in men che non si dica arriva un pick-up della polizia.
Si cambia incrocio e si gioca al gatto col topo. Lenti ma non fermi si passa da incrocio ad incrocio.
Passa così la mattinata che nonostante tutto scorre tranquilla; il traffico insostenibile, a cui ormai ci siamo abituati, oggi ha una pausa.
La grandissima maggioranza delle attività commerciali è restata chiusa per solidarietà e moltissimi mototaxi quest'oggi non sono in servizio.
Non c'è quasi bisogno dei blocchi perchè la solidarietà dei cittadini sembra essere totale.
Non ce l'aspettavamo.
Alle 15.00 ci concentriamo in Plaza 28 de Julio; alla spicciolata si riempie fino a partorire persone anche sulle strade laterali.
Decine di striscioni e di cartelli con frasi emblematiche, molti nativi, migliaia di persone e anche molti poliziotti. Nell'andare in piazza ci imbattiamo anche con un plotone dell'esercito che marcia rigidamente.
Si aspetta che l'affluire continuo di gente abbia fine per cominciare il corteo aperto sempre dal Comitè.
Alle 16 si parte.
Ai lati, alla testa e alle spalle è dispiegata la polizia in assetto antisommossa.
Ci si imbocca per Avenida Prospero e al primo incrocio ci fermiamo per misurare la lunghezza del serpentone umano. Bisogna attendere più di dieci minuti perchè finisca.
Dopo aver percorso le principali vie della città e il mercato di Belem torniamo in piazza.
Qui prendono parola tutti i rappresentanti indigeni che prima si rivolgono alla folla in Quechua e altre lingue per poi farlo in castigliano (non tutti).
Si chiede rispetto per la propria cultura e la propria terra, si chiede giustizia e dignità, si chiede l'abrogazione di tutti i decreti sulla selva (non solo del decreto 1090 e 1064) e si annuncia un blocco generale in tutto il Perù per il 7, l'8 e il 9 Luglio.
Ascoltare i nativi è toccante, ascoltare la loro rabbia degna è una scossa di vita.






.Domenica 21 Giugno 2009.